LE ELEZIONI UK 2019: VINCE LA BREXIT DI BORIS. L’EUROPA PERDE SE NON LA SI DIFENDE
Queste elezioni cambieranno probabilmente profondamente la politica britannica e il Regno Unito per come lo conosciamo. L’analisi rimane difficile data l’enorme complessità dovuta alla sovrapposizione di due assi, la questione Brexit (Si? No? Forse?) e quello classico sinistra/destra (quale mix fra giustizia sociale, pari opportunità, ruolo dello stato nell’economia, trattamento degli stranieri, difesa dello status-quo?).
I fatti. I Tories sfondano il muro rosso.
Oggi è il giorno della grande vittoria per i conservatori di Boris Johnson che ottiene la maggioranza assoluta dei seggi (365 su un totale di 650), la più grande maggioranza dai tempi della Thatcher sfondando nelle roccaforti laburiste dei distretti minerari ed industriali del Nord, specie nei Midlands e nel Nord-Est: dei 47 nuovi collegi conquistati, 44 vengono dal Labour, molti dei quali avevano fortemente votato per la Brexit nel 2016. Il Labour di Jeremy Corbyn ne esce sonoramente sconfitto, perdendo quasi 60 collegi (il doppio dei seggi guadagnati alle elezioni del 2017), la peggior sconfitta dal 1935. I Liberal-democratici tutto sommato tengono, sono il partito che cresce di più in termini di voti ma vanno ben sotto le aspettative portando a casa solo 11 seggi contro l’obbiettivo di 20. Scontano come i verdi (che comunque reggono a Brighton) la loro distribuzione a livello nazionale il che non aiuta in un sistema fortemente maggioritario con collegi uninominali che premia forze concentrate in un territorio, come invece è il caso del SNP di Nicola Sturgeon che guadagna terreno ovunque in Scozia rimettendo sul tavolo con forza la questione dell’indipendenza (anche se è difficile immaginare che un Westminster controllato dai Conservatori concederà loro un nuovo referendum nel breve termine). A Londra il Labour regge, perde Kensington ma conquista Putney e rimane alla guida nella maggior parte dei collegi, mentre i Lib-Dem vincono a Richmond. A tirare le somme in modo spiccio sembra che i britannici abbiano votato con forza per la Brexit o comunque per ‘un’Exit’,qualsiasi essa sia: gli inglesi dall’UE, scozzesi (e irlandesi, dove l’unionista DUP perde 2 seggi?) dall’UK. Ma se guardiamo al numero di voti assoluti la realtà è più complessa: le forze europeiste o comunque non euro-scettiche insieme vincono il voto popolare Lab+LibDem+SNP+Verdi arrivano al 47.5% contro il 45.5% di Tories + Brexit Party.
Come siamo arrivati qui?
Mi aspettavo che Boris avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta, ma non con un margine cosi ampio. Il forte disagio sociale presente nel Regno Unito, dove la coesione sociale è stata falcidiata da anni di forte austerità, causa stessa della Brexit, pensavo avrebbe portato meno fiducia per il partito autore di quella austerità, il partito conservatore. Ma viviamo nell’era dei leader, dove contano meno le adesioni identitarie o morali ai partiti ma le personalità, i programmi, le azioni. Per quanto io trovi pessimi entrambi, dobbiamo prendere atto che Johnson è considerato un leader migliore di Corbyn ed è incredibilmente riuscito a presentare i Tories come il partito del cambiamento, anche se i Conservatori sono al governo dal 2010.
Boris Johnson vince perché è un personaggio conosciuto che ha saputo veicolare un messaggio semplice: completiamo la Brexit e voltiamo pagina. Molti elettori moderati sono stufi del dibattito sulla Brexit e dopo 3 anni di stallo parlamentare vogliono andare avanti. Cosa ha aiutato i conservatori rispetto al 2017 è sicuramente la maggiore popolarità di Johnson rispetto a Theresa May, il patto di non belligeranza con Farage (a riprova del fatto che ha destra sono più bravi a coordinarsi che nel centro-sinistra dove la strategia del ‘tactical voting’ è sostanzialmente fallita).
Il dibattito sul NHS, il servizio sanitario nazionale, che fa acqua da tutte le parti, la presa che sembravano avere certe proposte laburiste (specie tra i giovani per le proposte su ambiente, università e emergenza abitativa, che infatti hanno votato in massa per Corbyn) insieme all’ottimo risultato inaspettato del 2017 avevano creato delle aspettative per i Laburisti. Il calo nei sondaggi negli ultimi giorni di Johnson aveva portato alcuni opinionisti a credere alla possibilità di un hung parliament dove nessun partito avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta. Ma in realtà Corbyn perde nettamente. Perde per la sua disastrosa posizione sulla Brexit. Perde per la sua percepita mancanza di credibilità e autorevolezza, attribuita alla sua storia politica e alle forti divisioni esistenti nel suo partito. Perde anche per una radicalità che ha spaventato il ceto medio e un programma troppo lungo, meno chiaro di quello conservatore, che prevedeva piani forse irrealizzabili se non con nuove tasse.
Sulla Brexit il partito laburista ha l‘imperdonabile colpa di non aver voluto difendere l’UE come progetto progressista, di aver provato a ignorare la questione Brexit con una politica di ‘ambiguità costruttiva’ per provare a tenere insieme, semplificando al massimo, sia i remainers di Londra che i leavers laburisti del Nord. Una strategia che forse ha pagato quando il tema Brexit non era ancora diventato cosi centrale, come nel 2017, ma non oggi dove è diventata la questione politica più importante del dopoguerra. Johnson al contrario da vero populista ha colto l’opportunità e ha fatto una scelta di campo (tra l’altro rinnegando posizioni assunte in precedenza) mentre Corbyn ha provato ad avanzare una sintesi, fallendo. Andava invece spiegato, specie al ceto medio impoverito del nord degradato e post-industriale, che la Brexit è un progetto regressivo che va contro i loro stessi interessi. Che con l’UE in UK ci sono maggiori vincoli in termini di diritti per i lavoratori, più fondi per combattere le disuguaglianze, l’accesso a un mercato più ampio con prospettive di maggiore prosperità per tutti. Che per rispondere ai loro bisogni occorre più Europa, non meno Europa. Queste cose vanno spiegate, difese, promosse, non ignorate. Il Labour di Corbyn invece si è vergognato dell’Europa cercando di non parlarne ‘per non creare divisioni’. Rifiutandosi di affrontare di petto la questione ha creato un vuoto politico enorme che ha scontentato entrambi i fronti, come dimostra il grafico qui sotto: il Labour ha perso terreno sia nei collegi pro-brexit che anti-brexit. Senza scelta di campo netta, gli elettori remainers sono rimasti a casa (in vari collegi vincono i Tories perché il Labour perde voti, non perché i Tories ne guadagnano) mentre i leavers si sono fidati dell’originale, ovvero di quella parte politica che predica la Brexit da decenni. Serviva un fronte più chiaramente europeista con un messaggio più chiaro senza ricorrere a forme anacronistiche che non parlano alla maggioranza del paese. I Lib-Dem non sono riusciti ad assolvere veramente questo compito in quanto assenti storicamente in molte aree chiave, avendo gestito male la loro campagna e pagando ancora il prezzo per la loro coalizione del 2010 con i Conservatori: chi vive in UK da un po' di anni sa che gli inglesi progressisti non si fidano dei Lib-Dem che da una parte predicano l’uguaglianza di opportunità e dall’altra triplicarono una volta al governo le tasse universitarie rimangiandosi le loro promesse elettorali.
In poche parole
Insomma, se dovessi riassumere in una frase l’esito di ieri, i remainers conservatori si sono affidati più a Johnson (fiduciosi o rassegnati poco importa) che i leavers laburisti a Corbyn.
Vince Boris il populista, il figlio delle elites che conquista i voti degli operai impauriti. L’opportunista che scelse la Brexit per sfidare Cameron. Il conservatismo di Johnson ha qualcosa di nuovo, nasconde tratti forse eversivi meno visibili. Boris gioca con la monarchia, diffonde fake news, come quando era giornalista o durante la campagna del referendum, attacca gli immigrati e i cittadini europei in UK. Sulla base del suo programma e delle sue affermazioni dobbiamo aspettarci una stretta contro gli immigrati meno qualificati. Migliaia di italiani non potranno più scegliere il Regno Unito come paese in cui insediarsi (quelli che già ci sono pero sono a posto). L’unica speranza è il suo opportunismo: con questa larga maggioranza non sarà più condizionato dal DUP o l’ERG, la corrente brexiteer piu radicale del partito conservatore e forse sarà molto più moderato e pragmatico al governo come quando era sindaco di Londra.
A Corbyn va comunque dato il merito di aver preso più voti di Ed Miliband e Gordon Brown e di aver influenzato l’agenda dei Tories che invece di nuova austerità hanno promesso maggiori investimenti pubblici per i servizi, seppur minimi. Emblematica è stata la giravolta sulle tasse: invece di promettere un tradizionale taglio dell’IRES, Boris ha deciso di rincorrere il Labour promettendo più soldi per il servizio sanitario nazionale.
La storia della Brexit é una storia di disagio sociale. La Brexit vince nel 2016 e ieri nelle zone a più bassa mobilità sociale, dove ci sono meno opportunità. Chi vive in queste zone ha votato di nuovo con più vigore per la Brexit per gli stessi motivi del 2016. Ma ho paura che saranno duramente traditi dalla destra reazionaria e populista che invece di maggiori risorse per ospedali, case e università, trasformeranno il Regno Unito in un paradiso fiscale stile Singapore deregolato alle porte dell’Europa. Ancora una volta le colpe del disagio sociale verranno attribuite agli stranieri.
I riformisti ispirati al liberalismo egualitario devono svegliarsi, costruendo un fronte anti-sovranista che difenda il progetto europeista. La sconfitta del Labour di Corbyn dimostra che in Europa abbiamo bisogno di nuove forme per sconfiggere la paura: la sua proposta politica non funziona.
Con le elezioni di ieri arriva la risposta alla domanda che mi pongo dal 23 Giugno 2016, ovvero se la Brexit sarebbe davvero accaduta. I nostri amici britannici oggi hanno confermato la loro volontà di andarsene, sta adesso a noi costruire un’Unione migliore. Non sarà semplice, specie avendo adesso un grande paese concorrente alle nostre porte, il cui successo apparente potrebbe tentare altri paesi membri a uscire alla prima difficoltà. Ma confido nelle ragioni profonde del progetto europeista: l’isolamento ha le gambe corte, i britannici prima o poi torneranno.