May, il giorno del giudizio. Il Regno Unito rischia la paralisi. Mio editoriale su Democratica.

Oggi gli occhi del mondo sono su Westminster: dopo oltre due anni di negoziati tra il governo britannico e l’Unione Europea per definire un accordo di recesso, il Parlamento britannico è chiamato a esprimersi sull’accordo (il voto stasera tra le 20.00 e le 22.00 italiane alla Camera dei Comuni). Ma l’accordo non piace né alle opposizioni né a molti parlamentari della maggioranza, sia perché comporta un divorzio troppo duro - per laburisti, nazionalisti scozzesi, liberal-democratici- o troppo morbido - per gli unionisti irlandesi o i cosiddetti  brexiteers conservatori- e verrà molto probabilmente respinto. La May si prepara quindi a una sonora sconfitta in Parlamento: le servono 318 voti ma probabilmente non ne otterrà  nemmeno 200. In quel caso il governo avrà 3 giorni di tempo per presentare al Parlamento un piano B. L’entità della sconfitta conterà molto: se i voti ribelli sono tra 50 o 100, probabilmente la May proverà a rinegoziare certi aspetti dell’accordo con Bruxelles e provare con un nuovo voto. Se oltre 200, come certe fonti annunciano, sarà il peggior risultato per un governo in carica negli oltre sei secoli di storia della Camera dei Comuni, peggiore del 1924 quando il governo laburista di minoranza andò sotto per 166 voti. In quel caso sarà difficile per la May evitare di dimettersi. La sconfitta potrebbe essere mitigata da alcuni emendamenti proposti dalla maggioranza e le opposizioni. Insomma, si annuncia una giornata lunga e concitata, con grandi manifestazioni a Westminster a favore del secondo referendum e pizzerie che offrono sconti a clienti che si impegnano a scrivere ai loro deputati per chiedere un secondo referendum. E’ comunque scontata in caso di sconfitta la proposta di una mozione di sfiducia da parte del partito laburista che non dovrebbe comunque passare. In breve, sembra ci siano per ora i voti per tenere la May a galla ma non per approvare l’accordo: il Regno Unito è in piena paralisi politica ed istituzionale.

Cosa succede se l’accordo viene bocciato

In questi ultimi anni abbiamo imparato che tutto è possibile ma sembrano meno probabili nel breve termine sia le elezioni anticipate, sia un secondo referendum e anche lo scenario ‘no Brexit’, ipotesi per le quali non sembrano esserci i voti in Parlamento per ora. Qui di certo non ha giovato né ‘l’ambiguità costruttiva’ di questi ultimi mesi del partito laburista né le dichiarazioni di Corbyn contro l’ipotesi di un secondo referendum, che hanno di fatto sconfessato i lavori della conferenza laburista di Liverpool, la stragrande maggioranza dei militanti ed elettori laburisti e tradito milioni di cittadini europei residenti nel Regno Unito. Rimangono sul tavolo quindi una rinegoziazione dell’accordo, un’estensione dell’articolo 50 e quindi un rinvio della scadenza del 29 marzo o l’ipotesi di un’uscita senza accordo, il cosiddetto ‘no-deal’.  Una rinegoziazione non sarà semplice, l’UE ha già detto che non può dare ulteriori concessioni e si rischia di ripetere lo stallo di questi ultimi mesi sul tema del confine tra Irlanda del Nord e la Repubblica irlandese. In certi ambienti laburisti e non solo piace l’ipotesi norvegese (fuori l’UE ma dentro il mercato unico pagando un contributo) ma anche qui non ci sono i voti con il Parlamento che rimane in mano alla maggioranza irresponsabile e incompetente dei Tories, che pensava di poter trarre beneficio dal populismo becero scatenato dallo UKIP ma che ne è poi rimasta vittima. I media oggi fanno la corsa a sostenere come l’ipotesi più realistica sia dunque chiedere un rinvio di qualche mese per spostare il muro 29 Marzo. Pare la Commissione si sia già detta in principio favorevole fino a luglio – il che porrebbe il tema della partecipazione del Regno Unito alle elezioni europee…- ma sono necessari una richiesta motivata del governo britannico e il consenso di tutti gli altri 27 paesi membri, il che non è del tutto scontato dati i vari interessi nazionali in gioco: un ministro spagnolo per esempio ha già posto come limite massimo le elezioni europee di maggio.

 

Ogni giorno cresce la probabilità di un’uscita del Regno Unito dall’UE senza un accordo. Non solo perché è ormai diventato lo scenario di default dati i tempi stretti e lo stallo del parlamento ma perché sempre più parlamentari conservatori si stanno convincendo questo sia il male minore. In caso di no-deal lo scambio di merci avverrebbe secondo le regole dell’Organizzazione Internazionale del commercio e il Regno Unito non pagherà gli oltre 40 miliardi di euro concordati con l’UE. Vengono pubblicate sempre più previsioni che in caso di no deal ci sarà sicuramente un rallentamento dell’economia ma non un collasso come pensato nei mesi scorsi. Offre il vantaggio di un divorzio netto, deciso, violento, dall’UE, il che piace ai brexiteers più incalliti come i membri della corrente dell’European Research Group e la garanzia dell’inviolabilità della sovranità territoriale del Regno Unito, il che piace agli unionisti irlandesi del DUP. Uscire subito, il 29 marzo, senza un accordo, sarebbe la grande vittoria del populismo di UKIP e Nigel Farage ma getterebbe il paese nella più grande incertezza economica e politica con gravi conseguenze per tutta l’Europa e soprattutto per la grande comunità di europei residenti nel Regno Unito tra i quali oltre 700 mila cittadini italiani. Seppur il governo britannico abbia promesso di tutelare i loro diritti, rimangono molte questioni aperte.

 

L’Italia deve farsi trovare pronta

 

L’Italia dovrebbe farsi trovare pronta per questo scenario. Altri paesi come la Francia, la Germania, il Belgio hanno già preparato piani di emergenza –sebbene abbiano in quel paese molti meno concittadini – invece il governo gialloverde dorme. Per questo motivo abbiamo presentato alla Camera dei Deputati una proposta di legge delega per chiedere al governo di mettere in campo azioni puntuali a sostegno dei cittadini e la circolazione di beni e servizi per mitigare al massimo le conseguenze negative sui nostri cittadini, sull’economia e sull’Unione. Chiediamo al governo di legiferare per l’immediato riconoscimento dei titoli di studio e delle professionalità acquisite dei cittadini italiani, britannici e comunitari nel Regno Unito al 29 marzo 2019, rafforzare le risorse di personale e infrastrutture per i nostri consolati (già oggi i consolati italiani sono allo stremo delle forze e non riescono a fornire un servizio decente ai cittadini – occorrono mesi per il semplice rinnovo di un passaporto - figuriamoci cosa accadrà quando per poter fare domanda per il  ‘Settled Status’ molti cittadini si renderanno conto che serve un document valido), rafforzare le risorse per i controlli doganali nei nostri porti e aeroporti, tutelare i diritti dei cittadini britannici in Italia, garantire alti standard di sicurezza per la circolazione delle merci, sostenere la piena convertibilità dei fondi pensione privati dal Regno Unito verso l’Italia e viceversa, promuovere la temporanea continuità contrattuale nei vari ambiti economico-finanziari specie nel settore dei derivati non standardizzati (il 90% delle transazioni all’ingrosso delle obbligazioni italiane vengono effettuate da istituti finanziari con sede nel Regno Unito). Assieme ad altre forze politiche abbiamo anche  richiesto l’istituzione di una Commissione Parlamentare bicamerale per studiare tutti le conseguenze di un’uscita senza accordo, un evento storico nuovo e sconosciuto sul quale il Parlamento deve avere un ruolo date le centinaia di migliaia di italiani coinvolti. Occorre inoltre attivarsi per scongiurare il rischio di una ‘windrush italiana’: decine di migliaia di italiani emigrarono nel Regno Unito negli anni ’50 e ’60 spesso per lavorare nelle industrie tessili dei midlands, come a Bradford o a Leeds. Molti di loro in seguito ottennero negli anni ‘70 ‘l’indefinite leave to remain’ che permetteva loro il soggiorno legale nel Regno Unito. Come lo scandalo Windrush l’anno scorso ha dimostrato, lo stato britannico non ha conservato traccia di questi documenti e molti di loro dopo quasi 50 anni hanno perso il documento. Occorre fare di tutto per tutelare i diritti di questi cittadini italiani ma europei prima di tutto ‘invisibili’ per le autorità britanniche e quindi a rischio deportazione nel regime di ‘hostile environment’ inaugurato quando la May era Ministro degli Interni per gli immigrati irregolari.

 

L’epopea della Brexit è lungi dal concludersi, lascia comunque di stucco la miopia dei conservatori che immaginavano l’UE fosse un menu a’ la carte dove ottenere l’accesso al mercato unico e la circolazione dei capitali ma senza circolazione delle persone. L’Unione è invece un progetto comune basato su valori condivisi con diritti e doveri. Sopravvivrà il Regno Unito fuori dall’UE? Certamente, ma i suoi cittadini, la sua economia e le sue istituzioni ne pagheranno un duro prezzo sia in termini di prosperità che di coesione sociale. Invece di chiudere la porta ai migranti occorreva dare più garanzie sociali ai lavoratori. Su questo punto il nazional-populismo britannico ha avuto gioco facile ma la visione di un Regno Unito isolato, nostalgico, paradiso fiscale tradirà quei milioni di persone che hanno votato per il ’Leave’