Il Jobs Act è stata una riforma necessaria del nostro mercato del lavoro per facilitare la ripresa e combattere il precariato di milioni di giovani lavoratori grazie al contratto unico, all’introduzione del NASPI e l’estensione dei diritti a nuove categorie di lavoratori finora esclusi. È importante difendere il lavoratore, non il posto di lavoro. La riforma pero è incompleta e, oltre alla riforma dei meccanismi di collocamento e re-inserimento, è necessaria l’introduzione di un salario minimo nazionale per tutelare i lavoratori esclusi dai contratti nazionali collettivi. Nel nostro paese ben 11% dei lavoratori è a rischio povertà (calcolato quando lo stipendio è inferiore al 60% del salario nazionale mediano), soprattutto nel settore dell’abbigliamento, alberghiero e agricolo, con salari ancora più bassi per i lavoratori a contratto determinato, i giovani e i lavoratori immigrati.
La proporzione dei cosiddetti working poors sta purtroppo crescendo in molte economie avanzate ed è una delle cause dietro l’aumento della disuguaglianza. Un salario minimo nazionale sarebbe un modo per proteggere quei lavoratori non coperti dai minimi dei contratti collettivi nazionali (CCN), circa il 20% del totale (i CCN coprono direttamente il 60% dei lavoratori e grazie all’articolo 36 della costituzione un altro 20% per estensione, secondo dati ISTAT). Introdurre un salario minimo, e non un reddito minimo, non è solo un modo per ristabilire un minimo di equità ma costituisce un rilancio del valore fondamentale della nostra Repubblica. E’ il segnale che l’Italia vuole ripartire accettando la sfida della produttività e investendo sulla propria forza lavoro e non la via della svalutazione interna e della compressione salariale.
Soprattutto, in un paese come il nostro con salari talmente depressi, un salario minimo potrebbe rilanciare l’occupazione grazie ai maggiori incentivi della partecipazione al mercato del lavoro. Questa è la lezione dal Regno Unito, dove il governo laburista introdusse un salario minimo nazionale nel 1997 portando, sorprendentemente per molti, ad un aumento dell’occupazione. Per un paese come il nostro che intende muoversi verso il modello della concertazione decentralizzata per le proprie relazioni industriali, un salario minimo rafforzerebbe il potere contrattuale dei lavoratori, specie per quelle categorie più vulnerabili che nemmeno hanno una seria rappresentanza sindacale (precari, giovani e immigrati). Per questo motivo chiediamo l’introduzione di un salario minimo nazionale proporzionato alla produttività, né troppo basso per poter veramente sostenere i salari, né troppo alto per evitare un aumento del lavoro nero o da costituire un peso eccessivo per le aziende.